Dic 29, 2012
543 Views
0 0

Dagli “assi” italiani della Seconda guerra mondiale la testimonianza del coraggio a compensazione delle carenze tecnologiche

Written by

By Giuliano Da Frè

Giuliano Da Frè ha intervistato Mirko Molteni (foto), autore di L’Aviazione italiana 1940-1945. Azioni belliche e scelte operative, a margine della presentazione del libro avvenuta al museo Volandia di Malpensa lo scorso 15 dicembre. Ne è nato un revival del coraggio e dell’abilità dei piloti italiani della Seconda guerra mondiale, oltre a un riferimento al loro importante ruolo nella segnalazione del preoccupante gap tecnologico che ha caratterizzato i mezzi in uso all’epoca.

Delle vicende dell’Aeronautica italiana nella Seconda guerra mondiale si è scritto molto in passato. Perché questa scelta?

“E’ vero, della storia dell’aviazione italiana impegnata nel conflitto si è parlato molto, soprattutto tra gli anni ’50 e ’70; ma l’ultimo libro dedicato all’argomento con una visione d’insieme è del 1991. Non che nel frattempo siano emerse grandi novità sul piano storiografico. Tuttavia ho voluto riprendere in mano l’argomento con un’ottica un po’ diversa: raccontandolo attraverso le testimonianze dei piloti italiani, assi e semplici gregari impegnati quotidianamente a volare in azioni rischiose con aerei quasi sempre superati, definiti a volte ‘casse da morto’. Storie che ho raccolto intervistando i superstiti, o rispolverando poco conosciuti testi di memorie scritti dai veterani del conflitto”.

Quindi una storia dell’Aeronautica italiana raccontata dalla voce dei protagonisti …

“Il mio libro punta molto sulle testimonianze individuali, senza però abdicare alla precisione del racconto tecnico-militare, riconfermando attraverso esperienze di prima mano che l’aviazione italiana fu costretta da carenze tecniche e dottrinali a puntare tutto sul fattore umano: coraggio, abilità, spirito di sacrificio, talvolta rassegnazione, in misura assai maggiore rispetto a quanto avveniva nelle forze aeree degli altri Paesi in guerra”.

Ci sono episodi che mettono in luce il tentativo fatto dai nostri piloti per ridurre il crescente gap tecnologico che ne limitava il rendimento sul campo di battaglia?

“Per fare un esempio, fin dai primi mesi del conflitto la Regia Aeronautica scoprì amaramente che l’impiego di bombardieri in quota con ordigni a caduta libera contro le formazioni navali in movimento era fallimentare. Il successivo adattamento del trimotore da bombardamento SM.79 Sparviero, conosciuto come ‘il Gobbo Maledetto’, al ruolo di aerosilurante assicurò indiscutibili successi contro il naviglio nemico solo al prezzo di notevoli sacrifici per gli equipaggi, che si trovarono a dover attaccare a volo radente le navi nemiche con un grosso trimotore che offriva una larghissima sezione frontale. Un bersaglio ideale, per le batterie contraeree imbarcate sulle navi della Royal Navy”.

Scelte diverse da quelle fatte dagli altri paesi?

“Sì, decisamente. Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone (che prima della guerra svilupparono in maniera specifica l’aviazione navale e materiale aeronautico da imbarcare sulle portaerei, ndr) affidarono la specialità aerosilurante soprattutto a monomotori più piccoli e agili, molto difficili da colpire e più adatti all’attacco aeronavale”.

I piloti da caccia italiani sono stati molto apprezzati, anche se alla fine non sono riusciti a difendere lo spazio aereo nazionale. Cosa emerge dai racconti dei protagonisti?

“Sin dal 1940 i piloti da caccia dovettero confrontarsi con velivoli nettamente superiori, affrontando uno dei migliori ‘cacciatori” della guerra, lo Spitfire inglese, con biplani che dal punto di vista concettuale erano vecchi di 20 anni. Facendo miracoli. Quando poi poterono impiegare aerei decisamente più avanzati (Macchi 205, Fiat G.55), si trovarono ad affrontare le enormi formazioni di bombardieri pesanti alleati, come le Fortezze volanti che stavano demolendo le città italiane, con un pugno di velivoli. Tra 1940 e 1945 l’Italia costruì poco più di 10.000 aerei, contro i 100.000 degli alleati tedeschi, i 120.000 britannici e ai ben 280.000 americani. Pochi di questi mezzi erano di tipo moderno, e divennero operativi troppo tardi per sperare di mutare le sorti del conflitto”.

Giuliano Da Frè

Foto: Giuliano Da Frè

Article Categories:
Forze Armate · interviste · tales