Lug 10, 2014
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L’ascesa cinese in Asia Centrale/2, Mentesana

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Cap 2, 2.1 della tesi L’ascesa cinese in Asia Centrale, di Annalisa Boccalon – Valentina Mentesana – Agnese Sollero

By Valentina Mentesana

La Politica estera cinese

La formulazione della politica estera della Repubblica Popolare Cinese ha sempre seguito un fil rouge che consente di avere un quadro d’insieme sulla visione che la Repubblica Popolare Cinese ha di se stessa.

Nello specifico, il pensiero strategico cinese sottolinea come il prerequisito essenziale della politica estera sia un’attenta lettura di quello che viene definito shi, ovvero le“propensioni complessive dell’ambiente circostante”.

Si tratta, quindi, di saper comprendere l’evoluzione dei fattori di potere e di assecondare le tendenze in atto traendone il massimo vantaggio.

In questo modo si comprende come la Cina sia sempre stata consapevole dell’importanza di intessere relazioni amichevoli con gli altri attori che operano nella stessa area d’influenza, ma soprattutto emerge una sostanziale pragmaticità che, come vedremo in seguito, verrà via via accentuata a partire dagli anni ’90 del ‘900. Inoltre, ciò che caratterizza la politica estera del Paese fin dai tempi in cui il Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese era guidato da Zhou Enlai, è il perseguimento, nella formulazione della stessa, dei principi della coesistenza pacifica formulati dallo stesso ministro rimasto in carica dal 1949 al 1958.

2.1. Com’è cambiata la politica estera della Cina?

Durante il periodo in cui de facto dirigeva la Repubblica Popolare Cinese, Deng Xiaoping affermò che per quanto riguarda la politica estera occorreva “prendere tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di fare qualcosa”.

L’affermazione di Xiaoping sottolineava una costante dell’atteggiamento cinese, la sostanziale contrarietà circa un coinvolgimento nelle crisi lasciando pur sempre la porta aperta all’intervento in caso di extrema ratio.

L’affermazione di principio di Deng Xiaoping arrivò in un periodo in cui si stava concludendo una sorta di “luna di miele” vissuta dalla Cina nei rapporti con l’Occidente. Una fase che aveva caratterizzato soprattutto gli anni ’80 ma che ormai volgeva al termine a causa principalmente di due eventi: le proteste di Piazza Tien’anmen e la caduta del muro di Berlino.

La manifestazione che si svolse in Piazza Tien’anmen (letteralmente “Porta della Pace Celeste”) nel 1989, nello stesso luogo in cui cinquant’anni prima Mao TseTung aveva proclamato la nascita della Repubblica Popolare Cinese, è ricordata come simbolo del mancato rispetto dei diritti umani da parte del governo della Repubblica Popolare Cinese. In quell’occasione morirono diversi manifestanti e la stampa occidentale non mancò di definirlo “massacro di piazza Tien’anmen”, mentre, all’interno della Repubblica Popolare Cinese, le proteste sono ancora oggi note come “movimento del 4 giugno”.

In seguito a quell’episodio l’intera comunità internazionale si indignò per la repressione posta in essere dall’esercito cinese ai danni degli studenti considerati da Deng Xiaoping dei controrivoluzionari desiderosi di rovesciare la Repubblica Popolare Cinese. La reazione immediata fu l’imposizione di un embargo sulla vendita di armi alla Cina, una decisione che arrivava come una doccia fredda  in un’epoca in cui la Cina si stava costruendo un’immagine internazionale.

L’altro evento di importanza geopolitica fondamentale è stato senza dubbio il crollo del Muro di Berlino del 9 novembre 1989. Un evento importante, dal punto di vista cinese, non tanto per la riunificazione delle due Germanie, quanto piuttosto per il crollo, verificatosi di lì a poco, dell’Unione Sovietica, la potenza più vicina al “cortile di casa” cinese.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenuta formalmente il 26 dicembre 1991, pose definitivamente fine al bipolarismo. La Cina era, dunque, costretta a ripensare il suo ruolo nel nuovo scenario mondiale, uno scenario in cui non esistevano più schieramenti netti, ma in cui, al contrario, coesistevano una miriade di attori con interessi perlopiù divergenti.

La mancanza di schieramenti precostituiti impose a ognuno degli attori una riflessione circa la propria posizione all’interno dello scacchiere mondiale, un ripensamento che passava necessariamente attraverso una ridefinizione degli interessi che ogni Paese riteneva per sé prioritari. Ecco che, quindi, la Cina si sentì in qualche modo vulnerabile e marginale rispetto agli affari mondiali.

Vulnerabile perché non esisteva più alcun tipo di distinzione tra le due parti del mondo e quindi non esistevano schieramenti e protettori.

Marginale perché si temeva che il centro del mondo ridiventasse nuovamente l’Atlantico con le relazioni tra gli Stati Uniti e la nuova Europa in via di costruzione.

Non si trattava, tuttavia, di uno scenario del tutto negativo per la Repubblica Popolare Cinese che poteva finalmente sentirsi libera di perseguire senza vergogna e senza ostacoli esterni i propri interessi nazionali, ma soprattutto non era più necessario far leva sull’ideologia per giustificare il proprio operato. In questa fase, dunque, si compì la transizione da una politica imperniata su motivazioni puramente ideologiche a una politica giustificata da ragioni economiche.

Dal punto di vista dei contenuti, la fine della Guerra Fredda impose alla Repubblica Popolare Cinese una revisione delle priorità e, soprattutto, un ripensamento delle relazioni con gli altri attori presenti sulla scena internazionale. Si trattava di un Paese che in pochi anni aveva dovuto rivedere la propria posizione nel mondo assumendosi anche l’onere di decisioni importanti per cui, in questo momento, l’obiettivo primario era quello di capire quale ruolo avrebbe potuto ricoprire nella governance internazionale.

I fattori che hanno influenzato notevolmente questa presa di coscienza cinese sono molteplici.

Al di là del crollo dell’Unione Sovietica di cui abbiamo già trattato, va sottolineato senz’altro il conseguente emergere di un mondo multipolare, il fenomeno della globalizzazione, l’ergersi di nuove sfide per la sicurezza, le preoccupazioni legate all’insicurezza energetica e, fenomeno non di trascurabile importanza, la crescita interna della stessa Cina.

Come già accennato in precedenza, il crollo dell’Unione Sovietica ha imposto alla Cina un ripensamento della propria posizione strategica. Prima del 1991, infatti, la Cina condivideva i suoi confini nordoccidentali solo con l’Unione Sovietica.

Con l’implosione di questa e l’indipendenza delle nuove repubbliche (Kazakistan nel 1990, Kirghizistan e Tagikistan nel 1991, Afghanistan nel 1992) la Cina è stata costretta a riformulare le politiche estere e di sicurezza per passare da una mera relazione bilaterale con un unico attore, l’URSS, all’instaurazione di relazioni bilaterali con le neonate repubbliche. Passaggio, questo che, come vedremo in seguito, l’ha posta di fronte all’onere di doversi rapportare spesso con istituzioni deboli e in fase di assestamento.

Con il disfacimento dell’Unione Sovietica ci si è trovati di fronte a un mondo multipolare in cui la Cina doveva e poteva ritagliarsi un suo spazio accanto alle altre medie potenze.

Un mondo multipolare caratterizzato dalla globalizzazione e quindi dalla continua interazione tra soggetti, un’interazione che imponeva alla Cina una ridefinizione dei rapporti bilaterali esistenti e l’avvio di nuove relazioni che le consentissero di dare una risposta anche alle ultime tre variabili poc’anzi citate: sicurezza, energia e crescita.

I nuovi bisogni legati alla sicurezza imposero alla Cina l’avvio di collaborazioni con gli Stati asiatici di nuova indipendenza volte ad approntare sistemi congiunti per la lotta ai comuni quali il terrorismo, il traffico di droga e di esseri umani e l’estremismo religioso.

Per quanto riguarda l’aspetto energetico, con la riformulazione della lista delle priorità della Cina si ravvisa l’emergere di preoccupazioni circa l’approvvigionamento energetico. Nello specifico, la Cina teme l’instabilità dei prezzi delle risorse energetiche e l’incostanza nei flussi di approvvigionamento.

Nel 2002 la visione cinese della politica estera subì un’ulteriore evoluzione. L’intervento anglo-statunitense in Iraq fu considerato dalla Repubblica Popolare Cinese come un ingiusto e irrazionale cambiamento radicale dell’ordine mondiale. Da allora la Cina non ha mai rinunciato ad affermare in modo orgoglioso la propria centralità ed è più pronta e consapevole ad affrontare le nuove e complesse sfide che la interessano.

Per sottolineare questo nuovo attivismo va ricordata un’affermazione di Hu Jintao che nel 2009, in occasione dell’incontro con i diplomatici cinesi, disse che occorreva “perseverare nel prendere tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di agire in modo proattivo per fare qualcosa”.

È evidente, quindi, un’evoluzione rispetto alle parole di Deng Xiaoping. Hu Jintao, infatti, parla di “agire in modo proattivo” e annoverava, quindi, tra le possibilità per il futuro un’azione della Cina intrapresa su sua personale iniziativa benché, nel complesso, si sottolinei la necessità di mantenere un “basso profilo”.

Gli altri attori internazionali non hanno mai nascosto i loro timori nei confronti della Repubblica Popolare Cinese. Le prime preoccupazioni si sono manifestate nel 2009 quando si registrò un recupero dell’economia cinese in un contesto generale di crisi mondiale (secondo i dati diffusi dalla Banca Centrale, la Repubblica Popolare Cinese ha fatto registrare nel 2007 un PIL di 3.262.372.407.739 dollari statunitensi. Un valore che è andato via via incrementandosi di anno in anno: 4.030.685.330.079 dollari statunitensi nel 2008 con un aumento del 23,55% rispetto all’anno precedente; 4.822.913.439.324 US$ nel 2009, in piena crisi, + 19,65% rispetto al 2008; 5.666.931.516.176 US$ nel 2010, +17,5% rispetto al 2010. Sull’argomento rimandiamo al sito della Banca Mondiale, http://databank.worldbank.org/).

Inoltre, nello stesso anno, la dirigenza cinese impose dei vincoli alla visita del Presidente statunitense Barack Obama a Pechino (durante la visita di Barack Obama a Pechino svoltasi nel novembre 2009 il premier cinese Hu Jintao ha imposto dei vincoli sugli argomenti da trattare. Nello specifico, per quanto riguarda la questione dei diritti umani, i due leader si sono limitati a dichiarare che i due Paesi hanno delle differenze, senza approfondire l’argomento)  e dimostrò un atteggiamento poco costruttivo durante la conferenza sul clima che si tenne a Copenaghen in dicembre (in quell’occasione il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi definì il summit di Copenaghen come un nuovo inizio – “Copenaghen is not a destination but a a new beginning” – ribadendo, peraltro, quanto affermato prima dell’avvio formale del summit dal Presidente cinese Hu Jintao. Il summit si concluse, poi, con un nulla di fatto e gli Stati partecipanti non sottoscrissero alcun accordo vincolante per contrastare i problemi dovuti ai cambiamenti climatici. Sull’argomento rimandiamo allo speciale della BBC, http://news.bbc.co.uk/2/hi/in_depth/sci_tech/2009/copenhagen/default.stm).

Nel gennaio dell’anno seguente la Cina ribadì la propria ostilità al riconoscimento internazionale della Repubblica di Taiwan opponendosi alla vendita di armamenti statunitensi (è ben noto infatti, come Taiwan abbia un canale privilegiato per l’acquisto di armamenti dagli Stati Uniti: nel 2010 il Presidente statunitense Barack Obama chiede al Congresso l’approvazione di cinque programmi del valore complessivo di 6,4 miliardi di dollari, approvati nel settembre 2011, e di altri tre programmi del valore complessivo di 6,4 miliardi di dollari che riguardavano l’aggiornamento degli F16A/B venduti in precedenza a Taiwan. Nonostante ciò, Obama non diede seguito alle richieste di Taiwan circa la fornitura di sottomarini. Sull’argomento rimandiamo a Kan Shirley A., 2012) alla suddetta Repubblica e in marzo mantenne un atteggiamento ambiguo circa l’affondamento di una corvetta sudcoreana (il 26 marzo 2010 la Cheonan, una nave sudcoreana con 104 uomini a bordo, affondò nella acque del Mar Giallo provocando la morte di 46 persone. Secondo un’indagine condotta da un team internazionale composto da Corea del Sud, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Svezia l’incidente era stato causato da un torpedo nordcoreano. La Corea del Nord negò e chiese l’avvio di un’ulteriore indagine con l’aiuto della Repubblica Popolare Cinese che smontò lo scenario presentato dalla Corea del Sud definendolo non credibile. Sull’argomento rimandiamo a Watson P., 2012)

Valentina Mentesana

Seguirà 2.2. Cenni sull’evoluzione dei rapporti con l’URSS (poi Russia)

Qui il link al post precedente: L’ascesa della Cina in Asia Centrale/1, Boccalon-Mentesana-Sollero

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