Feb 17, 2015
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Ipotesi sull’eccidio del gen Tellini nella scena dei delicati equilibri balcanici

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Achille Beltrame_sbarco truppe italiane a Corfù settembre 1923_tavola per Domenica del CorriereBy Filippo Malinverno

Dalla tesi “Il caso Tellini: la questione del confine greco-albanese dall’eccidio di Giannina all’occupazione di Corfù” di Filippo Malinverno.

Capitolo III: il confine greco-albanese

3.1. Albania e Grecia: le origini della disputa per il confine dalla crisi d’Oriente a Versailles

La questione del confine greco-albanese fa parte dell’ampio contesto della questione d’Oriente, che caratterizzò tutto il processo di regressione dell’Impero ottomano dall’Europa balcanica e danubiana tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: man mano che l’autorità della Sublime Porta si indeboliva, nuove popolazioni colsero l’occasione per conquistare la propria indipendenza, andando così a comporre quell’immenso mosaico di nazionalità che è l’Europa orientale.

La disputa territoriale fra Grecia e Albania, che fu la causa storica dell’eccidio di Giannina, cominciò ad affacciarsi sul panorama politico europeo nella seconda metà dell’Ottocento, precisamente nel 1878. In quell’anno, dopo che la crisi d’Oriente scoppiata all’interno dell’Impero ottomano aveva condotto ad una guerra russo-turca vinta facilmente dall’esercito zarista, il cancelliere tedesco Otto von Bismarck volle convocare a Berlino un congresso per ridimensionare la vittoria, a suo giudizio troppo pericolosa per l’equilibrio europeo, ottenuta dall’Impero russo contro Istanbul.

Era evidente che la creazione della “Grande Bulgaria” stabilita dal Trattato di Santo Stefano (comprendente anche buona parte della Macedonia e la Rumelia orientale) avrebbe dato un’enorme vantaggio alla Russia, che avrebbe reso Sofia un proprio Stato vassallo per garantirsi l’accesso al Mare Egeo.

Di conseguenza, a Berlino, le conquiste russe furono fortemente ridotte in favore di un’altra potenza, l’Austria-Ungheria, che aumentò in modo ingente la sua influenza nei Balcani.
Con gli equilibri balcanici sconvolti in seguito all’incontro delle grandi potenze nella città tedesca, durante il quale Bismarck si era proposto come arbitro dei destini dell’Europa, la nazionalità albanese intravide la possibilità di affrancarsi dalla dominazione ottomana: effettivamente, nonostante avesse perso de facto la Bosnia-Erzegovina e il Sangiaccato di Novi Bazar, Istanbul aveva ancora la piena sovranità sull’Albania, uno dei pochi territori rimastogli in Europa.

Dopo la conclusione del Congresso di Berlino quindi, gli albanesi, riunitisi nella Lega di Prizren, cominciarono in sordina la loro lotta per l’indipendenza, ponendosi come obiettivo non solo la difesa dei propri territori nazionali, ma anche la creazione di un’unità amministrativa autonoma albanese che comprendesse i quattro interi vilayet (nome turco per “province”) di Ioannina (Giannina), Uskub (l’odierna Skopje, capitale della Macedonia), Monastir (l’attuale città macedone di Bitola) e Scutari: la capitale di questo nuovo Stato avrebbe dovuto essere Monastir, a testimonianza del fatto che la percezione che gli albanesi avevano dei propri territori nazionali era molto diversa dalla realtà territoriale odierna, che non comprende se non una delle città sopraelencate, Scutari.

Per realizzare questa unità bisognava però opporsi alla cessione di questi territori albanesi agli altri Stati confinanti (Grecia, Montenegro e Serbia), che presumibilmente avrebbero richiesto la loro annessione una volta cacciati definitivamente i turchi dall’Europa: era evidente che le ambizioni degli albanesi contrastavano con quelle dei loro vicini, greci in primis.

La Grecia, nazione di religione ortodossa, perseguiva allora l’obiettivo di realizzare la “Megàli Idea”, ovvero di costruire, territorio dopo territorio, una “Grande Grecia” che includesse sia parte dell’Anatolia turca, compresa parte della costa egea di Smirne, sia i territori irredenti del Nord Epiro, attualmente sotto sovranità ellenica e che possiamo identificare con l’area compresa tra le città di Gjirokaster (Argirocastro) e Korça. Questi territori erano abitati in maggioranza da greci ortodossi, con però una forte presenza di albanesi musulmani: sia la Grecia che la futura Albania, quindi, volevano fortemente imporre la propria sovranità su quest’area, al momento ancora compresa nei domini europei dei turchi.

Una nuova evoluzione degli equilibri balcanici si ebbe tra il 1912 e il 1913, pochi anni dopo la scioccante annessione della Bosnia-Erzegovina all’Impero austro-ungarico, accolta con sgomento dallo zar Nicola II, il quale però, a causa del mancato appoggio della Francia, non volle muovere guerra contro gli austriaci.

La crisi balcanica fu una conseguenza della mossa italiana avvenuta nel 1911: la guerra italo-turca (conclusasi con il Trattato di Ouchy dell’ottobre 1912), indebolendo la Turchia, eccitò gli Stati balcanici ad allearsi tra loro per dare l’ultimo colpo al dominio turco in Europa.

Questa crisi fu anche l’occasione per la Russia per riaffermare la propria influenza nei Balcani e, non a caso, fu infatti lo zar a prendere l’iniziativa di coalizzare gli Stati balcanici contro la Turchia, nell’intento sia di completare l’estromissione dei turchi dall’Europa, ma soprattutto di riprendere la guida dei popoli slavi contenendo la pressione dell’Austria-Ungheria.

Con la Prima guerra balcanica (ottobre 1912 – maggio 1913), Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia, unite nella Lega balcanica, sconfissero facilmente l’Impero ottomano supportate dalla Russia: durante la guerra, gli eserciti serbo e greco invasero diverse zone dell’Albania, rispettivamente a nord e a sud, devastando il territorio e ponendo le basi per le future rivendicazioni di confine.

Il conflitto si concluse con la Pace di Londra, secondo la quale l’Impero ottomano cedeva tutti i territori rimastigli in Europa, esclusa una parte di Tracia; inoltre, il Sangiaccato di Novi Bazar cessava di esistere e i suoi territori vennero concessi alla Serbia, che tra l’altro acquisì anche la regione del Kosovo, abitata in maggioranza da albanesi musulmani.

Nel frattempo, a Vlora, in Albania, Ismail Beg, a capo della Lega per la difesa del popolo albanese, formò un governo provvisorio dichiarando l’indipendenza dell’Albania: era il 28 novembre 1912 e ormai il destino indipendente dello Stato albanese pareva finalmente prossimo alla realizzazione.

Tuttavia, con l’eliminazione del dominio ottomano in Europa, il maggiore motivo di coordinamento tra Stati balcanici veniva meno anche sul piano simbolico e formale e presto emersero i movimenti irredentisti e nazionalisti esistenti da decenni nei Balcani.

La situazione precipitò in merito alla Macedonia e riguardo alla sua spartizione, quando la Bulgaria, rifiutando l’arbitrato russo, scese in campo contro i suoi ex alleati, facendo scoppiare la Seconda guerra balcanica (luglio-agosto 1913).

In questo secondo conflitto, la Bulgaria venne facilmente sconfitta da una coalizione formata da Serbia, Montenegro, Grecia, Romania e Turchia, le quali imposero a Sofia l’umiliante Pace di Bucarest, che comportava la perdita, da parte della Bulgaria, di molti dei territori conquistati, tra cui la Dobrugia, assegnata alla Romania.

Alla fine delle guerre balcaniche dunque, gli equilibri erano stati ancora una volta stravolti e l’Impero ottomano era stato definitivamente cacciato dalla regione. Con Grecia, Serbia e Montenegro che avevano tratto grandi benefici territoriali dalla ritirata turca, rimaneva ancora aperta la questione dell’Albania, dichiaratasi indipendente alla fine del 1912 ma de facto occupata dalle truppe serbe, che, dopo aver già annesso al proprio regno il Kosovo, non avevano alcuna intenzione di andarsene.

Per evitare che greci, serbi e montenegrini allargassero i propri territori e soprattutto per evitare che la Serbia raggiungesse, puntando a conquistare Durazzo, il tanto agognato sbocco sull’Adriatico, Italia e Austria-Ungheria, riunitesi insieme a Gran Bretagna e Francia nella conferenza di pace di Londra che aveva posto fine alla prima guerra balcanica, si adoperarono per sostenere l’indipendenza albanese. Era vero che tra Vienna e Roma non corressero buoni rapporti in quel periodo e che i loro interessi convergevano nell’Adriatico, ma impedire ai serbi di raggiungere il mare era una priorità per entrambe.

Una volta accettata la nascita di uno Stato albanese autonomo, le grandi potenze europee affidarono il delineamento dei confini alla Conferenza degli Ambasciatori, istituzione che in pratica fungeva da organo esecutivo delle loro decisioni prima della creazione della Società delle Nazioni: non si trattava, tuttavia, della stessa Conferenza che avrebbe giudicato il caso Tellini, ma le modalità d’azione erano pressoché identiche.

Dopo aver rischiato lo scoppio di una guerra tra Serbia e Austria-Ungheria per via della riluttanza serba ad abbandonare i territori albanesi, la decisione finale sui confini dell’Albania venne presa il 17 dicembre 1913 con la firma del Protocollo di Firenze, un documento nel quale venivano stabilite le frontiere del neonato Stato, frontiere che grosso modo corrispondono a quelle dell’attuale Albania.

Le altre potenze balcaniche dovettero accettare questa decisione dall’alto a malincuore, pur ottenendo qualche compenso territoriale: la Grecia acquisì la regione di Giannina, mentre la Serbia, che perdeva così qualsiasi possibilità di ottenere uno sbocco diretto sul mare, e il Montenegro si spartirono il Kosovo.

La commissione internazionale decise anche altri due elementi del nuovo Stato: lo statuto, monarchico, e il re; sovrano d’Albania sarebbe stato il principe tedesco Wilhelm von Wied, giunto nel paese all’inizio del 1914, ma costretto alla fuga già nel settembre dello stesso anno, poche settimane dopo lo scoppio della Grande Guerra, a causa di sommosse popolari musulmane contro di lui, sovrano protestante.

Fu così che, durante il conflitto mondiale, l’Albania visse in uno stato di totale anarchia, senza governo e senza frontiere precise e riconosciute, alla totale mercé degli eserciti stranieri, che occuparono la regione quasi ininterrottamente dal 1914 al 1918: francesi, serbi, montenegrini, italiani, austriaci e greci si alternarono nell’occupazione, contribuendo ad aumentare ancora di più l’ostilità degli albanesi musulmani contro i loro vicini balcanici, in particolare i greci e i serbi ortodossi.

Alla fine della guerra, durante la conferenza di pace di Parigi, i confini dell’Albania furono ovviamente messi in discussione, non solo dalle piccole potenze balcaniche, ma anche dagli stessi albanesi: ci fu anche chi giunse a negare l’esistenza stessa dello stato Albanese, cosa che però era ormai data per certa dalle potenze vincitrici dell’Intesa.

Per quanto riguarda la posizione dell’Italia, tra il 1915 e il 1920 Roma oscillò fra due diversi orientamenti da mantenere verso Tirana: il primo comportava la spartizione dei territori albanesi tra Roma e gli altri Stati balcanici, lasciando indipendente solamente un minuscolo Stato albanese, mentre il secondo comportava la creazione definitiva dell’Albania secondo le frontiere stabilite dal Protocollo di Firenze del 1913.

Se nel 1919, con gli accordi segreti fra Tittoni e Venizelos (che spartivano l’Albania in due tra Italia e Grecia), parve avere la meglio la prima ipotesi, nel 1920, con l’avvento al Ministero degli Esteri di Carlo Sforza, tornò in auge la seconda: alla fine, il rispetto degli accordi di Firenze divenne la linea preponderante della politica estera italiana verso l’Albania, tanto che, sempre nello stesso anno, Roma e Tirana giunsero ad un accordo che imponeva alle truppe italiane di stanza a Valona di ritirarsi dalla città albanese, mantenendo solo l’avamposto di Saseno.

La conferenza parigina, dunque, non fu in grado di risolvere la questione dei confini dell’Albania a causa delle rivalità esistenti tra gli albanesi e le piccole potenze balcaniche e tra queste stesse potenze.

Se nel 1913, dopo gli accordi raggiunti a Firenze, la posa dei cippi sul territorio per delimitare le frontiere non fu possibile a causa dello scoppio della guerra qualche mese più tardi, nel 1919 la comunità internazionale avrebbe dovuto cercare di limare le rivalità balcaniche per realizzare il sogno indipendentista albanese: una decisione finale, come vedremo, verrà presa solo nel 1921 e la commissione incaricata di tracciare i confini verrà inviata sul posto solo nel 1922.

3.2. La disputa greco-albanese tra pulizie etniche e differenze religiose

A partire dal 1912, l’Albania era stata sconvolta da terribili fenomeni di pulizia etnica, di cui si resero responsabili sia i greci, che avevano occupato il sud del paese durante le guerre balcaniche, che i serbi, che invece avevano occupato il nord. Soprattutto a sud, i greci avevano cercato di estirpare dalle terre occupate la comunità nazionale albanese musulmana, utilizzando svariati mezzi di violenza con l’intento di terrorizzare gli autoctoni e obbligarli a rifugiarsi verso nord: le regioni più coinvolte furono il Nord Epiro e la Ciamuria, il territorio percorso dal fiume Kalamas e oggi facente parte della Grecia.

La pulizia etnica delle regioni dell’Albania meridionale, tuttavia, non avrebbe dovuto essere totale, perché in quei luoghi vivevano diverse comunità greco-ortodosse, allora sotto sovranità ottomana, ma desiderose di riunirsi alla propria patria; esistevano anche delle comunità di albanesi ortodossi, sempre sudditi dell’Impero ottomano.

La distinzione tra albanesi musulmani e albanesi ortodossi è molto importante ai fini della nostra analisi, poiché questa distinzione la fecero anche i greci al momento dell’occupazione dell’Albania meridionale.
Mentre gli albanesi musulmani erano considerati stranieri a tutti gli effetti e quindi meritevoli di un’espulsione di massa, gli albanesi ortodossi, essendo dello stesso credo degli ellenici, venivano considerati come dei fratelli ortodossi “albanofoni” , i quali pertanto non dovevano essere discriminati, ma soltanto reindirizzati verso la cultura greca.

Osservando questa distinzione, possiamo quindi notare che il carattere discriminante con il quale i greci giudicavano gli albanesi non era tanto l’etnia di appartenenza, quanto piuttosto la religione: fare parte della Mecca oppure del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli faceva la differenza.

Ecco perché solamente gli albanesi musulmani subirono le terribili pene dell’operazione di pulizia etnica greca, messa in atto nel tentativo di omogeneizzare la composizione della popolazione al confine con l’Albania.

Un esempio eclatante del progetto dei greci ci viene fornito dalla Pace di Losanna del 1923 tra Grecia e Turchia, dopo la quale i due paesi diedero inizio ad un intenso scambio di popolazioni volto a riequilibrare le etnie all’interno dei confini nazionali.

Essendo, con la sconfitta subita per mano di Atatürk, morto definitivamente il sogno della “Grande Grecia”, Atene dovette concentrarsi su di un altro obiettivo: dare una nuova compattezza nazionale al proprio Stato.

Lo scambio di popolazioni iniziò il 30 gennaio 1923, con la firma di una convenzione che permise il trasferimento forzato di un milione di greci dall’Anatolia alla Grecia e di circa 400.000 turchi dalla Grecia alla Turchia.

Tuttavia, l’applicazione di questo accordo diede origine ad un nuovo e profondo contrasto fra la neonata Albania e la Grecia, contribuendo ad aumentare la tensione e, di conseguenza, anche le scorribande di criminali lungo il confine dell’Epiro.

Difatti, dato che, come abbiamo visto, per i greci il fattore religioso era molto più rilevante di quello etnico, gli ellenici cominciarono ad espellere verso l’Anatolia non solo i turchi, ma anche gli albanesi musulmani, che vennero scambiati proprio per “turchi”; secondo Tirana, questa confusione non fu casuale e il governo presentò violente proteste contro Atene alla Società delle Nazioni, che, alla fine, diede ragione agli albanesi cercando di imporre ai greci la cessazione di questi ingiusti scambi, sempre più somiglianti a vere e proprie deportazioni.

Diversi censimenti greci di quegli anni, che contavano i ciamurioti di religione musulmana come albanesi a tutti gli effetti, testimoniano la graduale diminuzione della presenza di abitanti fedeli all’Islam nella Ciamuria : secondo il censimento greco del 1913, su una popolazione totale di 60.000 abitanti, 25 000 di questi erano musulmani albanofoni; il censimento del 1923 registra invece un sensibile calo di questa percentuale, fino ad arrivare ad un numero complessivo di 20,319 Cham musulmani, così come il successivo censimento del 1928, secondo cui la cifra scendeva fino a 17.008.

Un ulteriore censimento fu fatto dall’Italia fascista nel 1941, quando l’esercito italiano occupava quelle regioni, ma i dati raccolti non sono assolutamente attendibili, visto che il governo di Roma utilizzò proprio l’irredentismo dei ciamurioti albanesi come pretesto per intervenire contro la Grecia, aumentando quindi il numero di albanesi censiti in Ciamuria: ad ogni modo, stando a questi dati, nel 1941 abitavano nella regione circa 54.000 albanesi, di cui 26.000 ortodossi e 28.000 musulmani, e 20.000 greci.

Un altro strumento per eliminare gli albanesi musulmani fu trovato dai greci nella riforma agraria, stesso metodo che usarono i serbi in Kosovo.

All’inizio degli anni Venti, il governo greco emanò infatti una riforma dell’agricoltura che mirava ad eliminare il latifondo, istituzione agricola che permetteva di accumulare ingenti ricchezze a molti albanesi musulmani, proprietari di terreni in zone a ridosso del confine greco-albanese.

Ponendo severi limiti alla proprietà terriera, la riforma agraria andò quindi a danneggiare il çiflik, ovvero quella sorta di feudo posseduto fin dal Cinquecento dai signori albanesi di religione musulmana. I danni all’intera nazionalità albanese furono enormi, perché non solo si distruggeva l’unità economica della società albanese, ma anche quella amministrativa, dato che spesso e volentieri i terreni sequestrati venivano redistribuiti avvantaggiando i greci espulsi dall’Asia Minore e bisognosi di terra da coltivare.

I rapporti tra la Grecia e l’Albania sarebbero rimasti conflittuali per tutto il ventennio tra le due guerre, fino ad arrivare ad una vera e propria guerra nell’ottobre 1940, quando l’Italia, che nell’aprile del 1939 aveva annesso l’Albania, dichiarò guerra ad Atene: è interessate vedere come il pretesto usato da Mussolini per invadere la Grecia furono, in questo caso, le vessazioni subite dagli albanesi dopo le guerre balcaniche.

Per l’occasione, non solo fu organizzata una poderosa campagna mediatica anti-ellenica, ma fu anche rispolverato il mito albanese della Ciamuria irredenta e dell’oppressione dei suoi abitanti, rappresentati da un martire creato ad hoc, un tale chiamato Daut Hoxha (più o meno l’equivalente di un nostro Mario Rossi).

Come sappiamo, per gli italiani la guerra sarebbe finita male e le sconfitte subite in Grecia a partire dal 1941 furono fatali per il mal organizzato esercito italiano. Certo è che l’Italia non esitò ad usare la rivalità greco-albanese per perseguire i propri obiettivi espansionistici anche se, quando gli italiani ebbero il controllo della Ciamuria e del Nord Epiro, Mussolini e Ciano si rifiutarono di annettere queste regioni all’Albania, vuoi per il fatto che la popolazione greca era in maggioranza o perché molti albanesi di Grecia non avrebbero voluto tornare sotto l’amministrazione albanese.

Verso la fine della guerra, tra il 1944 e il 1945, queste regioni sarebbero state nuovamente oggetto di una feroce pulizia etnica operata dall’esercito greco: emblematico fu il massacro di 600 albanesi di Ciamuria nel villaggio di Paramithia, avvenuto il 27 giugno 1944.

Dopo il conflitto, la cortina di ferro scese sull’Europa, dividendo il Vecchio Mondo in due e innalzando un muro ideologico anche tra la Grecia, filoccidentale e presto entrata nell’orbita dell’Alleanza atlantica, e l’Albania, fedelmente comunista fino all’inizio degli anni Novanta, impedendo così un ulteriore peggioramento del conflitto greco-albanese.

3.3. La nomina della commissione dei confini

Ripercorrendo i punti salienti dello storico contrasto tra Albania e Grecia, abbiamo visto che la Prima Guerra Mondiale non risolse la disputa ma, anzi, gli accordi di Versailles lasciarono aperta la questione del confine tra le due nazioni, una delle quali, l’Albania, aveva conquistato l’indipendenza da poco.

Dopo la firma della Convenzione di Roma dell’agosto 1920 tra Italia e Albania, che sanciva l’abbandono del territorio albanese da parte delle truppe italiane, che comunque avrebbero mantenuto un avamposto sull’isolotto di Saseno, il problema della definizione delle frontiere dell’Albania riacquisì importanza, dato che ora anche l’ultimo esercito straniero aveva lasciato il suo nazionale albanese.

Il 6 giugno 1921, visto l’aggravarsi della situazione nel sud del paese, il governo inglese, dopo essersi consultato con i governi alleati di Francia e Italia, inviò un memorandum alla Conferenza degli Ambasciatori, nel quale si portava l’attenzione sull’importanza della questione delle frontiere dell’Albania, frontiere che dovevano essere tracciate al più presto per evitare scontri armati con la Grecia o con la Jugoslavia.

L’iniziativa britannica fu appoggiata sia da Atene che da Belgrado e presto si aprirono le discussioni in seno al Consiglio della Società delle Nazioni, durante le quali emersero due posizioni differenti in merito al delineamento delle frontiere: da una parte c’era l’opinione di Tirana, i cui delegati chiesero che il Consiglio mandasse una commissione d’inchiesta in Albania per far valere le decisioni prese dalla Conferenza degli Ambasciatori a Londra nel dicembre 1913 sul confine nord, integrate poi dal Protocollo di Firenze per il confine sud del paese; dall’altra invece, Belgrado e Atene volevano che la Conferenza degli Ambasciatori stessa nominasse un’altra commissione che ridisegnasse i confini ex novo.

Nel dibattito, le grandi potenze sostenevano ciascuna il proprio alleato: l’Italia era vicina all’Albania, la Gran Bretagna alla Grecia e la Francia alla Jugoslavia. Alla fine, il peso delle due grandi potenze europee contò assai più di quello dell’Italia e prevalse la linea dei governi greco e jugoslavo per formare una nuova commissione che stabilisse i confini del neonato Stato albanese. A Roma, che ancora una volta, dopo Versailles, era stata zittita dagli anglo-francesi, non restò che la magra consolazione della direzione della commissione.

Una volta stabilito che bisognava nominare una nuova commissione, rimaneva da decidere a quale organo affidare questa nomina.

Questa volta tutti concordarono sul fatto che l’organo più adatto ad un compito del genere era la Conferenza degli Ambasciatori, nata per iniziativa del Consiglio Supremo alleato nel 1920: il Consiglio della Lega delle nazioni incaricò così la Conferenza di formare la suddetta commissione, raccomandandosi di farlo il più rapidamente possibile.

Tale decisione non fu apprezzata dal rappresentante dell’Albania, che infatti rifiutò di accettare qualsiasi decisione della Conferenza e si riservò il diritto di riaprire la questione in occasione del successivo incontro dell’Assemblea della Lega; purtroppo però, anche questo organo non diede ascolto alle continue proteste di Tirana, che durante l’estate del 1921 continuò a denunciare le ripetute scorribande degli jugoslavi all’interno del paese: il 2 ottobre 1921, l’Assemblea invitò l’Albania a rispettare la decisione della Conferenza degli Ambasciatori .

Intanto però, le tensioni lungo il confine con la Jugoslavia non si placavano. Il loro peggioramento fu talmente evidente che portò Londra a richiedere, il 7 novembre, al segretario generale della SDN di indire una riunione del Consiglio per valutare la situazione ed eventualmente sanzionare il governo jugoslavo, che sembrava non voler rispettare gli obblighi del trattato di pace. Sotto pressione per il rischio di una escalation di violenza fra Tirana e Belgrado, la Conferenza degli Ambasciatori decise di rivedere la sua posizione, determinando le frontiere dell’Albania sulla base delle linee stabilite nel 1913 e accontentando quindi l’asse Roma-Tirana: la decisione comunque fu accettata, dopo proteste formali, anche da Atene e Belgrado.

Il 9 novembre, a Parigi, fu eletta dunque una commissione di delimitazione, che avrebbe avuto il compito di tracciare fisicamente i confini dello Stato albanese sul campo. Il generale italiano Enrico Tellini avrebbe diretto le operazioni sul fronte sud, lungo il confine con la Grecia, mentre gli anglo-francesi avrebbero curato la parte nord del paese.

La commissione arrivò sul posto il 7 marzo 1922 e, a causa dell’inverno, interruppe i lavori l’11 dicembre, per poi riprenderli nel maggio dell’anno successivo, pochi mesi prima dell’eccidio di Giannina.

Il rischio della missione internazionale era elevato, visto che nel frattempo le scorribande albanesi in Grecia e quelle jugoslave in Albania non si erano fermate. C’erano poi problemi di natura pratica, relativi all’apposizione dei cartelli con l’indicazione dei nomi degli Stati confinanti: a nord, per esempio, l’Albania confinava con il Montenegro, già Stato indipendente ma occupato durante la guerra dalle truppe serbe e de facto unitosi alla Serbia nel 1918; questa unione, tuttavia, non era stata sancita da nessun patto ufficiale riconosciuto a livello internazionale, quindi la commissione non sapeva se indicare sui cartelli il nome Montenegro oppure quello di Regno serbo-croato-sloveno.

Il commento del generale Tellini a riguardo è emblematico:

“Qui si presenta una questione alquanto delicata, giacché non risultando ancora da un perfetto patto internazionale, l’incorporazione del Montenegro alla Jugoslavia, si verrebbe con queste iscrizioni, poste da una Commissione che è emanazione della Conferenza degli Ambasciatori, a riconoscere come ufficiale uno stato di cose che non lo è, e che finora si era evitato in ogni modo di pregiudicare in un senso o nell’altro.”

Le parole dell’ufficiale italiano dimostrano quanto la commissione percepisse la fragilità dell’equilibrio presente allora nei Balcani, un equilibrio che poteva essere rotto anche da un errata scritta su un cartello di confine.

Era chiaro che, fino a quel momento, le potenze europee non avevano fatto i conti con i resti della polveriera balcanica esplosa tra il 1912 e il 1914: ora che si presentava il delicato problema della delimitazione dei confini, nemmeno i membri della commissione interalleata sarebbero stati al sicuro.

3.4. Le teorie sull’omicidio di Tellini

Nessuno potrà mai sapere se il generale Tellini fosse realmente preoccupato di perdere la vita lungo il confine greco-albanese, ma certo è che la consapevolezza del rischio era in lui molto viva.

Ancora oggi, non si conoscono i nomi dei colpevoli: di seguito, analizzeremo quattro teorie sull’omicidio Tellini , tutte plausibili ma nessuna mai provata concretamente.

La prima di queste coinvolge direttamente Benito Mussolini, allora capo del governo e Ministro degli Esteri del Regno d’Italia. Secondo questa teoria, l’omicidio del generale Tellini fu istigato dallo stesso Mussolini a causa delle tendenze dichiaratamente antifasciste dell’ufficiale toscano e della sua palesata avversità nei confronti del Duce. Ipotesi plausibile visto che Mussolini, come avrebbe dimostrato l’anno dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, non esitava ad eliminare alla radice le personalità che potevano creargli problemi all’interno del paese.

D’altra parte, pur essendo l’antifascismo di Tellini un sentimento sincero, pare difficile che un semplice orientamento politico potesse giustificare un eccidio del genere, tanto più che il generale si trovava in Albania, lontano dai giochi di potere di Roma.

Ciononostante, possiamo trovare una sorta di prova a favore di questa teoria nelle parole di Carlo Sforza, più volte a capo del Ministero degli Esteri italiano, il quale, in una delle sue pubblicazioni, scrisse che:
“Non poca gente in Italia finì con il credere nell’ipotesi che Mussolini stesso aveva causato il massacro che gli diede la possibilità per effettuare un brillante exploit”.

Difficile dire se Sforza avesse ragione, ma finora non sono emerse prove evidenti in favore di questa teoria.

La seconda ipotesi è invece quella caldeggiata, all’epoca, dal governo greco, secondo il quale il vero responsabile dell’eccidio di Giannina fu il governo di Tirana, accusato di aver organizzato una ritorsione contro la missione internazionale perché non accettava che si disegnassero i nuovi confini, più vantaggiosi, a suo dire, per la Grecia e la Jugoslavia.

Effettivamente, il vero obiettivo dell’attentato poteva non essere la delegazione italiana, bensì quella greca comandata dal colonnello Botzaris, la cui macchina era scivolata in fondo al convoglio per via di un guasto, lasciando così la Lancia italiana al centro. Possibile che il cambio di posto nel convoglio durante il viaggio fosse stata una tragica fatalità?

Questa ipotesi risulta possibile se si considera che Botzaris, discendente di Markos Botzaris, uno degli eroi dell’indipendenza greca, era una sorta di icona nazionale e, inoltre, aveva attaccato in più occasioni il governo albanese pubblicamente.

Tuttavia, è sicuro che il governo albanese non avesse alcuna intenzione di colpire la delegazione italiana, perché Tellini era l’unico a difendere gli interessi albanesi sul campo: un ufficiale italiano morto non avrebbe di certo fatto comodo agli albanesi, che, senza l’appoggio italiano, sarebbero stati vittima della convergenza di interessi di Grecia e Jugoslavia, supportate rispettivamente da Gran Bretagna e Francia.

La terza ipotesi è quella sostenuta dall’Italia nei primi giorni della crisi, ipotesi che accusava il governo di Atene di essere il mandante dell’eccidio.

In questo modo si spiegherebbe il guasto della Ford di Botzaris, che non sarebbe stato altro che un espediente per far passare avanti gli italiani e permettere agli assassini di trucidarli; si spiegherebbe anche il mancato passaggio della vettura del nipote dell’Arcivescovo di Giannina, a cui sarebbe stato impedito di proseguire per risparmiargli la vita.

I dubbi però sono numerosi: perché, fin dalle prime ore, l’intero popolo greco e il governo stesso vissero la tragedia con grande commozione ed ostilità nei confronti degli autori del crimine? Perché poi la Grecia si rifiutò di adempiere a tutte le richieste fatte da Roma? Anche questa terza ipotesi dunque risulta poco verificabile.

Veniamo ora alla quarta e ultima ipotesi, la più semplice e forse anche la più probabile. Ad uccidere Tellini e i suoi uomini furono dei banditi albanesi, sconfinati in territorio greco per razziare, oppure degli abitanti di alcuni villaggi greci desiderosi di protestare contro i disegni del nuovo confine.

Sebbene il coinvolgimento di cittadini greci fu subito scartato dagli inquirenti, le indagini condotte dai commissari ellenici nei giorni seguenti l’omicidio non furono abbastanza accurate e il giudizio delle autorità di Atene fu troppo affrettato e lapidario: secondo loro, i responsabili del crimine erano cittadini albanesi, comuni criminali giunti in territorio greco per compiere una delle tante scorribande.

Quando, il 31 agosto 1923, la flotta italiana bombardò l’isola di Corfù, le indagini passarono ovviamente in secondo piano e non vennero più riprese come era necessario, dato anche il fatto che tutti gli attori in gioco avevano raggiunto in breve tempo un ragionevole compromesso.

Il caso Tellini venne così insabbiato e sopraffatto dagli egoismi delle singole potenze, che impedirono il raggiungimento di un’unica verità sul delitto.

Gli attriti fra Grecia e Albania rimasero tuttavia irrisolti e la polveriera balcanica, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e lo sfaldamento della Jugoslavia titina, sarebbe nuovamente esplosa.

La guerra nella ex-Jugoslavia del 1992-95 e quella in Kosovo del 1996-99 sono state, in questo senso, il punto di arrivo delle tensioni balcaniche, tensioni che l’Occidente ha dimostrato di non poter risolvere imponendo le proprie decisioni, esattamente come non poté impedire nel 1923 quel terribile assassinio.

Per ristabilire un equilibrio duraturo nei Balcani sarà dunque necessario sanare gli innumerevoli contrasti esistenti anche se, in questo crogiolo di etnie, religioni e culture, questo obiettivo risulterà estremamente difficile da realizzare.

Filippo Malinverno

I link ai post precedenti:

Il massacro del generale Tellini sul confine greco-albanese, tra Islam balcanico e Cristianesimo ortodosso (13 febbraio 2015)

Il caso Tellini e l’invasione di Corfù decisa da Mussolini. Conseguenze e valutazioni (15 febbraio 2015)

La bibliografia fornita dall’autore, Filippo Malinverno:

– Andrea Giannasi, L’eccidio Tellini. Da Giannina all’occupazione di Corfù, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2007.
– Ornella Ferrajolo (a cura di), Il caso Tellini. Dall’eccidio di Janina all’occupazione di Corfù, Giuffré Editore, Milano, 2005.
– Carlo Sforza, L’Italia dal 1914 al 1944, Mondadori, 1946, pp. 177-178.
– Nathalie Clayer, Aux origines du nationalisme albanais: la naissance d’une nation majoritairement musulmane en Europe, Éditions Karthala, Parigi, 2006.
– Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri, Laterza, Roma, 2008.
– Henry Bogdan, Storia dei paesi dell’Est, SEI To, 1991.
– Documenti diplomatici italiani, Settima serie, Moscati R. (a cura di), Volume II, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1955, pp. 125-215.
– Michele Rallo, La crisi di Corfù: partita a scacchi nello Jonio in “Storia in Rete”, a. IV n. 36, ottobre 2008.
– Istituto di Studi Giuridici Internazionali, 1444/3 – L’occupazione italiana di Corfù, www.prassi.cnr.it, (28/12/14 e 29/12/14).
– Istituto di Studi Giuridici Internazionali, 1500/3 – L’eccidio di Janina, www.prassi.cnr.it, (27/12/14).

La tavola illustrata di Achille Beltrame sull’occupazione di Corfù per la Domenica del Corriere è di europaorientale.net

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Forze Armate