Giu 22, 2012
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Il Sergente di Gallarate che denunciò l’arretratezza del nostro esercito

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By Vincenzo Ciaraffa

Tempo fa, presso un rigattiere, trovai un libro, peraltro ricco di tavole, che illustra la “Prima mostra degli artisti italiani in armi”, quella che, nella primavera del 1942, si tenne nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, la mostra delle opere di artisti-soldati i quali, al ritorno dai vari fronti di guerra, rappresentarono la realtà che avevano vissuto, con sculture, pitture e disegni.

Il libro colpisce almeno per tre ragioni: quella mostra fu la prima e ultima perché nel giro di qualche anno il regime fascista sarebbe crollato; segnò la prima presa di distanza dei militari dalla guerra di Mussolini; vi partecipò anche un artista-soldato di Gallarate.

Nel 1942 eravamo al secondo anno di una guerra che non si metteva bene per noi, e questo si capiva proprio dalle opere esposte che, per quanto volessero essere celebrative, non riuscirono a celare un’amara verità: un esercito da Prima Guerra Mondiale stava combattendo in un conflitto che era già potenzialmente nucleare, stante che in quello stesso anno Enrico Fermi avrebbe prodotto la prima reazione atomica controllata.

Forse fu per queste tardive considerazioni che il Capo di Stato Maggiore dell’epoca, il Generale Vittorio Ambrosio, nel presentare quella mostra, sprecò appena una decina di righe, dalle quali era sparito ogni riferimento a Mussolini, agli invitti camerati tedeschi e i toni guerrieri in auge fino a qualche anno prima. Secondo quanto egli scrisse, infatti, l’Italia, non combatteva più per il duce e per il re ma semplicemente “per il suo avvenire”.

D’altronde, per quella mostra così ingenuamente messa in piedi dal Minculpop (Ministero della cultura Popolare), la retorica sarebbe stata insopportabilmente ridicola perché i soldati-artisti vi avevano rappresentato, senza proporselo, una realtà che non si prestava a trionfalismi: delle opere esposte, infatti, non ve ne era una che desse l’idea di un esercito passabilmente moderno!

L’artista che rappresentò al meglio quel desolante stato di cose fu un gallaratese, Donato Bitetto, con l’opera “Carica di lancieri”, una scultura in cera 40X60. Di lui si sa soltanto ciò che riporta la scheda biografica acclusa alla sua opera, e cioè che nacque a Gallarate, in provincia di Varese, il 10 dicembre del 1910, frequentò l’Accademia  di Belle Arti di Brera, fu Sergente del Regio Esercito e autore del sacello per i caduti del 78° Reggimento di Fanteria “Lupi di Toscana”.

Davvero poche le notizie per provare a disegnarne i ragionati tratti artistici e umani, e tuttavia l’opera che egli presentò a Roma può ancora parlare per lui. Quei due cavalieri che caricano lancia in resta ci dicono che il Regio Esercito Italiano era distante anni luce dalla tecnologia messa in campo dai nostri compositi avversari e temporanei alleati, come le inarrestabili divisioni corazzate naziste, le micidiali “Katiusce” russe e la bomba atomica statunitense.

Bitetto, dunque, meriterebbe il ricordo dei gallaratesi perché nella sua onesta rappresentazione aveva saputo plasticamente anticipare ciò che sarebbe successo nel volgere di pochissimo tempo.

Da lì a pochi mesi, infatti, il Reggimento Savoia Cavalleria sarebbe stato costretto a caricare (con la sciabola!) tre battaglioni russi a Isbuschenskij e i Cavalleggeri di Alessandria avrebbero compiuto, a Poloy (con la lancia!), l’ultima carica di cavalleria del XX secolo. Purtroppo la dea Minerva, protettrice latina delle arti, concede soltanto agli spiriti eletti come Bitetto di servire l’arte senza asservirla alle ideologie perché l’arte  – se è tale –  è capace di raccontare la verità anche senza proporselo, anche senza volerlo.

Vincenzo Ciaraffa

La riproduzione fotografica è di Vincenzo Ciaraffa

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