Nov 15, 2020
498 Views
0 0

Forze Armate in scala: M36, l’ultimo caccia-carri

Written by

By Mithra

L’evoluzione della dottrina di impiego dei mezzi corazzati durante la Seconda Guerra Mondiale diede luogo allo sviluppo di un elevato numero di particolari modelli di carri armati, appositamente pensati per ricoprire specifici ruoli e adatti a compiti particolari.

Un settore particolarmente importante di questa estrema specializzazione del mezzo corazzato fu quello dei cosiddetti caccia-carri. Si trattava di mezzi corazzati progettati e realizzati specificatamente per contrastare e distruggere i carri armati avversari, da cui il nome.

Bisogna fare una precisazione per evitare un equivoco concettuale.

Questo tipo di mezzo non era un comune carro armato idoneo al combattimento con mezzi similari (definito, generalmente, combattimento di incontro), ma era un mezzo con caratteristiche particolari che doveva eliminare il carro armato avversario senza farsi ingaggiare in uno scontro diretto (per distinguerlo dal precedente potremmo definirlo un combattimento d’agguato).

Per questo motivo il caccia carri, di solito, era sviluppato a partire dallo scafo di un normale carro armato, che veniva utilizzato senza apportarvi modifiche. Dove differiva dal modello originario era la soprastruttura, che risultava ampiamente modificata in quanto doveva alloggiare un armamento, costituito da un cannone di elevato calibro con caratteristiche che premiavano l’impiego contro bersagli protetti (calibro/lunghezza della canna/velocità alla bocca elevata), che generalmente risultava richiedere uno spazio e un ingombro maggiore rispetto ai pezzi generalmente montati sui carri armati.

Per questo motivo, generalmente, vennero adottate soluzioni che prevedevano la sistemazione del pezzo in casamatta a cielo aperto (Germania) o in torretta sempre a cielo aperto (USA e UK), anche se non mancarono realizzazioni in casamatta chiusa con la sostituzione delle piastre blindate con vere e proprie piastre corazzate e con armamento estremamente potente (Germania e URSS).

Un’altra caratteristica comune era quella della semplicità di costruzione di questi mezzi che richiedeva un minore impiego di materiale, una tecnica costruttiva semplificata e quindi dei costi molto più contenuti.

Un ulteriore elemento positivo era costituito dalla semplificazione della catena logistica in quanto il motore, gli organi di trasmissione e il sistema del treno di rotolamento erano gli stessi dei mezzi da cui erano stati derivati.

Tale concetto dottrinale rimase valido anche nel dopoguerra e venne abbandonato solo alla metà degli anni ’60.

Il Regio Esercito, anche se aveva sviluppato un concetto di impiego che prevedeva l’uso del materiale di artiglieria semovente in funzione contro carro (obice 75/18 e cannone 75/34 su scafi M40/41e 42), non esplicitò riferimenti dottrinali diretti per realizzazione di reparti di caccia-carri.

Nel dopoguerra, invece, essendo la riorganizzazione delle Forze Armate fortemente condizionata sia dalla disponibilità di materiale Alleato, sia dalla necessità di una integrazione dottrinale nell’ambito dell’Alleanza, il concetto di caccia-carri fu adottato e realizzato con la costituzione di unità al livello di battaglione, inquadrate principalmente nei reggimenti di artiglieria. Ovviamente il materiale che era idoneo a equipaggiare queste unità non poteva essere che di origine USA: quindi M18 e M36.

Dell’M18 abbiamo già trattato in un precedente articolo, quindi adesso ci concentreremo sull’M36.

Questo rappresenta l’evoluzione finale del concetto di tank destroyer di produzione USA.

Sviluppato sulla base del carro Sherman M4 di cui adottava scafo, motorizzazione e treno di rotolamento, l’M36 era armato con un potente cannone da 90/50 mm M3 sistemato in una torretta a cielo aperto.

Le ottime caratteristiche balistiche del cannone e l’affidabilità dello scafo consentirono all’M36 di essere impiegato con successo negli ultimi due anni di guerra ottenendo importanti risultati, nei confronti dei mezzi avversari.

La validità del cannone M3 consentì al mezzo di estendere il suo impiego operativo nel secondo dopoguerra costituendo una notevole minaccia anche per i mezzi del Patto di Varsavia.

L’introduzione di una nuova linea di carri da parte URSS e la nascita del concetto di MBT (Main Battle Tank) agli inizi degli anni ’60 decretarono il definitivo abbandono del concetto di caccia- carri e quindi la trasformazione dei reparti con nuovi equipaggiamenti.

Nell’Esercito Italiano l’M36 (nella versione B1, quella su scafo M4A3) venne affiancato agli M18 esistenti e venne inquadrato al livello di battaglione principalmente nell’ambito dei reggimenti di artiglieria delle Divisioni, non solo quelle corazzate; mentre al livello di Corpo d’Armata o Regione l’impiego dell’M36 era previsto al livello di reggimento.

La notevole affidabilità del carro Sherman di cui aveva ereditato scafo e componenti meccaniche, semplice da manutenzionare e con costi di gestione contenuti, e le notevoli capacità balistiche del cannone M3 resero l’M36 un mezzo complessivamente ottimo, in grado di ricoprire con efficacia il ruolo per il quale era stato concepito.

 

Il modello

Il modello che ho utilizzato per riprodurre questo carro è della AFV Club (# AF 35058) in scala 1/35.

Il kit della casa asiatica è senza dubbio la migliore realizzazione disponibile dell’M36.

Aprendo la scatola il contenuto comprende una serie di otto stampate con plastica di ottima qualità in vedere oliva, dei cingoli in vinile anch’essi di pregevole fattura, un set di decal per quattro versioni, il libretto di istruzioni e anche una canna tornita in alluminio che aggiunge quel tocco di lusso che non guasta, anche se il costo del modello non è eccessivo, data la qualità, essendo di circa 35 euro.

La ricerca dei dettagli è molto elevata e la ditta taiwanese ha fedelmente riprodotto sia la rivettatura dello scafo che gli altri particolari del treno di rotolamento e della struttura generale.

Particolarmente dettagliati sono la camera di combattimento e la torretta. Il cannone M3 è fedelmente riprodotto in tutti i suoi elementi; addirittura è riprodotta la possibilità del rinculo della bocca da fuoco!

Il montaggio scorre via senza alcun problema, gli incastri sono perfetti e non richiedono stuccature. Nonostante l’alto livello di dettaglio complessivo, il modello non ha quell’enormità di minuscoli particolari costituiti da pezzettini microscopici, spesso al limite dell’assurdo, che caratterizzano alcune produzioni cinesi.

Il modello si presta, comunque, a qualche aggiunta e dettaglio ulteriore, che possono dare quel tocco in più di personale.

Nel mio caso il posto di pilotaggio è stato arricchito con alcuni particolari che ne hanno incrementato il realismo (ovviamente invisibili a scafo chiuso, ma posso assicurare che ci sono!!!).

La livrea è il verde oliva scuro che ha caratterizzato i nostri mezzi per circa 40 anni. Le insegne, realizzate in regime di autarchia modellistica (cioè, me le sono stampate da solo) riproducono un mezzo del gruppo anticarro del 131° Reggimento artiglieria corazzata della Divisione Centauro nella metà degli anni’50.

L’equipaggio è costituito da quattro figurini (MiniArt e Tamiya) che ho modificato con l’aggiunta di qualche particolare e delle teste della Hornet. La torretta a cielo aperto, inoltre, consente di mettere in evidenza il cannone M3 e gli interni, dando la possibilità ai figurini di movimentare un po’ la staticità dell’insieme.

L’ambientazione del mezzo è stata realizzata con una cornice economica, della balsa, l’immancabile e insostituibile DAS. La vegetazione è un mix di prodotti naturali, mentre per l’acqua ho usato una resina bicomponente, il senso di movimento e il realismo del mezzo che esce dall’acqua sono stati ricercati usando del Vinavil e del silicone trasparente.

Alla fine, ho ottenuto una riproduzione dettagliata e fedele dell’M36 con i colori italiani. Il carro ha in sé ha un certo fascino e una sua bellezza in quanto non rappresenta il solito Sherman, ne richiama le forme caratteristiche, ma in realtà se ne differenzia essendo un altro mezzo.

Il kit AFV è completo e molto ben dettagliato e consente, con una spesa onesta, di riprodurre un mezzo che ha avuto una parte importante nella ricostruzione dell’Esercito Italiano nel secondo dopoguerra. L’M36 non è, magari, noto a tutti ma rappresenta un elemento fondamentale nell’evoluzione della dottrina di impiego delle forze corazzate e un suo esemplare non può assolutamente mancare in una collezione che voglia ripercorrere le tappe critiche nello sviluppo del mezzo corazzato nell’Esercito Italiano.

Mithra (LZ Scale Modeling)

Article Categories:
Forze Armate in scala